Don Italo Calabrò

Foto Calabrò
Cenni biografici su don Italo Calabrò

“All’improvviso, nel mese di aprile 1990, il Signore mi ha chiaramente avvertito che la mia giornata volgeva rapidamente al declino”. Sono le parole con le quali don Italo Calabrò inizia il suo testamento spirituale scritto il 9 giugno 1990, pochi giorni prima della sua morte.
Ma chi era don Calabrò, come ha vissuto il suo sacerdozio, come ha servito Cristo, la Chiesa, i poveri?
Don Italo Calabrò è nato a Reggio Calabria il 26 settembre 1925 ed è cresciuto in una famiglia esemplare che lo ha educato al lavoro e alla fede. Mentre era studente al liceo classico “T. Campanella” di Reggio Calabria, comunicò ai suoi genitori il desiderio di diventare sacerdote. Più di tutti fu la mamma, Teresa Cilione, a credere nella vocazione del figlio Italo. Anche suo padre, Giovanni, dopo un primo momento di “delusione”, fu favorevole all’ingresso del figlio nel seminario. Ottenne, però, che il figliolo prima terminasse gli studi liceali. In questa fase della vocazione Italo viene seguito dallo zio, don Antonino Calabrò, parroco della parrocchia di S. Maria della Cattolica di Reggio.
A 17 anni consegue la maturità classica e nel settembre del 1942 entra nel seminario diocesano “Pio XI” di Reggio dove affina e completa la sua preparazione. I compagni, i docenti e i superiori lo ricordano tra i migliore di tutti i seminaristi non solo per la bravura nel superare gli esami ma anche per il carattere gioviale e per la generosità nell’aiutare e incoraggiare chi faceva più fatica ad andare avanti.
Il 25 aprile 1948 viene ordinato sacerdote dall’arcivescovo Antonio Lanza del quale diventa subito segretario. L’improvvisa morte del pastore, avvenuta il 23 giugno 1950, provoca a don Italo tanto dolore e sofferenza. Don Italo comincia a sperimentare fin dai primi anni di sacerdozio che la sequela di Cristo non è per niente facile. Già in quell’amara prova, sostenuto con grande affetto da mons. Demetrio Moscato, divenuto in seguito vescovo di San Marco Argentano e Bisignano e poi di Salerno, don Calabrò testimonia il suo amore e la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. Nel settembre del 1950 viene nominato arcivescovo di Reggio mons. Giovanni Ferro che guida la diocesi per 27 anni. Don Italo, entrato nel cuore di mons. Ferro, diventa suo stretto collaboratore e ricopre via via negli anni molteplici incarichi diocesani.
E’ educatore e insegnante nel seminario diocesano, assistente dei giovani di Azione Cattolica (GIAC) e poi degli Uomini Cattolici (FUIC), segretario e direttore dell’Ufficio amministrativo diocesano, cerimoniere del Capitolo Cattedrale, viceparroco e, dal 1964 sino all’ultimo istante della sua vita, parroco di San Giovanni di Sambatello dove dispose di essere sepolto.
A 24 anni, nel 1949, a un anno dall’ordinazione sacerdotale è già canonico: la nomina del vescovo Lanza coincide con quella di cerimoniere arcivescovile e e di insegnante nel seminario diocesano. Rinuncia a tale carica il 30 novembre 1960. Dal 1956 al 1963 è stato direttore dell’Ufficio Amministrativo della diocesi. Inoltre è stato giudice del Tribunale Ecclesiastico Regionale dal 1959 al 1974. Assistente diocesano GIAC, assistente Diocesano Uomini di Azione Cattolica. La Congregazione per l’Educazione Cattolica lo nomina ispettore di religione per l’Italia Meridionale dal 1965 al 1971. E’ presidente dell’Opera Diocesana Assistenza (ODA) dal 1955 al 1970. Viene nominato presidente della Caritas Diocesana fin dalla fondazione della stessa, nel 1971, e ne è Delegato Regionale dal 1971 al 1982. Il 19 dicembre 1985 lascia l’incarico di Direttore della Caritas Diocesana.
E’ cofondatore della Caritas Italiana e per diversi anni ricopre la carica di vicepresidente nazionale: assieme don Giovanni Nervo e don Giuseppe Pasini promuove in tutta Italia il rinnovamento del servizio pastorale ai poveri inteso non più come solo fatto assistenziale ma soprattutto di integrale promozione umana e di liberazione. E’ tra gli artefici della promozione dell’obiezione di coscienza e del servizio civile alternativo a quello militare. Vicario episcopale per le attività assistenziali e caritative dal 1971, è anche Vicario Generale dell’Arcidiocesi di Reggio dal 1974 alla morte.
I poveri e i giovani sono i due grandi poli tra cui si svolge tutta l’intensa azione pastorale e civile di don Italo. Educatore d’intere generazioni giovanili, sia nelle file dell’associazionismo cattolico sia nel mondo della scuola, insegna religione per lunghissimi anni, dal 1954 fino al 1979 in diversi istituti cittadini e conclude nella scuola che più ha amato: il tecnico industriale “A. Panella”.
Sacerdote di Cristo per i fratelli, con una predilezione per i più poveri, vive la sua vita con la consapevolezza che “la vocazione è un dono per una missione. Dio chiama ogni uomo perché sia manifestazione vivente del suo amore per l’umanità. Perciò Dio chiama per inviare ognuno per un servizio ai fratelli determinato dal dono personale di cui lo ha arricchito” .
Fu un prete santo perché rispose alla chiamata del Signore con viva fede e spirito di sacrificio, amando Dio e i fratelli. Guardava la realtà, e in essa si incarnava, con la mentalità formata alla scuola della Bibbia e del magistero della Chiesa. Ai fratelli e a Dio donava tutto ciò che era ed aveva. Non si appropriò dei talenti che la provvidenza gli aveva donato. Li usò sempre per il bene e la liberazione di quanti il Signore metteva sulla sua strada. Pur assumendo con responsabilità complessi compiti ecclesiali e civili, non caricò la sua esistenza di fardelli che potessero indebolire o allentare il passo e la voce del profeta. Il suo modo di vivere, il suo vestire, il suo parlare, esprimevano la libertà di chi aveva deciso di seguire Cristo e di farsi tutto a tutti. La sua casa era luogo di accoglienza, di incontro e scuola di vita spirituale: aveva allestito una camera per l’ospitalità dei giovani da lui seguiti che si trovavano in particolare difficoltà. L’essenzialità del suo cibarsi esprimeva sobrietà e rispetto per chi non aveva di che nutrirsi. Considerava il denaro strumento da usare con parsimonia e attenzione: ai soldi non si attaccò mai e anche il modo di “trattarli” ne esprimeva il distacco.
Vive la sua vita affettiva con equilibrio, comunicando tutta la carica passionale, propria del suo carattere sanguigno, nelle relazioni che avviava con quanti incontrava. Anche la dimensione sessuale, è vissuta da don Italo con serena considerazione e armonia: agli amici intimi raccontava qualche “tentazione” che colorava con simpatica e arguta ironia. Riconosce l’importanza del dono del celibato, anche se ha grande rispetto e comprensione verso i confratelli che lasciano l’esercizio del sacerdozio per difficoltà su questo piano. Ringrazia il Signore che gli dà il dono della fedeltà e tuttavia, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, intravede, per il bene della Chiesa e dei fedeli, la possibile riconsiderazione del vincolo del celibato per i presbiteri cattolici.
Don Italo non si sentì mai un convertito realizzato pienamente: sapeva che ogni giorno doveva rinnovare il suo “si” al Signore e purificare la sua vita dalle incrostazioni. Rinvigoriva il suo cammino attingendo grazia e sapienza dall’Eucaristia e dalla preghiera che apriva e chiudeva le sue giornate. L’incontro con i poveri, che in lui trovavano conforto, orientava e illuminava le sue scelte.
“I poveri”, ci diceva – “sono i nostri padroni. I poveri sono Cristo, l’ottavo sacramento”. Nel suo testamento spirituale lo stesso don Italo raccoglie in una breve frase il senso più profondo della sua esistenza: “Amatevi tra voi, di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada, nessuno escluso, mai! E’ questo il comandamento del Signore”. Il Vangelo era la legge ed il riferimento fondativo della sua esistenza che ha consumato nella continua testimonianza dell’amore di Cristo. Impegnato fin da giovane in delicati e difficili incarichi pastorali, mise sempre al centro della sua vita sacerdotale il servizio ai più poveri e la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa.
Quando venne eletto Giovanni XXIII, il Papa Buono, la sera del 28 ottobre del 1958, don Italo in diocesi ricopriva diversi incarichi. E proprio nel 1958, primo anno di pontificato del Papa Buono, don Italo ha modo di scoprire la terribile condizione dei malati mentali ricoverati nel manicomio di Reggio Calabria. Accompagnò un suo giovane amico medico per essere ricoverato. Il Signore irrompe nella vita di don Italo attraverso gli ultimi, gli emarginati che già aveva conosciuto ma che ancora non lo avevano, come lui ci diceva, messo in crisi. Ci disse che per lui fu un vero “pugno nello stomaco”, don Luigi Ciotti avrebbe detto “una pedata di Dio”.
L’incontro con gli ammalati mentali e con i più poveri, fece crescere in don Italo quella “fame e sete di giustizia” che lo spinse ad organizzare a partire dal 1968 con i suoi studenti del “Panella” molteplici iniziative per ridare dignità e giustizia a tanti poveri cristi. Un impegno finalizzato innanzitutto a far chiudere il manicomio e ad impedire nel frattempo che altri ammalati vi entrassero.
Alcuni studenti del “Panella”, diplomati nel 1968, accolsero la sfida di don Italo: fare la rivoluzione a partire dalla propria vita. Iniziarono a condividere la prima esperienza della nascente Piccola Opera Papa Giovanni nella casa canonica della sua parrocchia di San Giovanni di Sambatello dove vennero accolti i primi sei giovani con disabilità. Il 7 dicembre 1968 il vescovo Giovanni Ferro durante la messa della vigilia dell’Immacolata, benedice la “nascente Piccola Opera di papa Giovanni…”.
In quello stesso periodo don Italo Calabrò costituì il gruppo dei Giovani Amici che in seguito diventerà il Centro Comunitario Agape: il senso di quella comunità voluta da don Italo, era innanzitutto vivere la condivisione con i poveri, lottare contro ogni emarginazione, rimuovere le cause delle ingiustizie e promuovere la liberazione da ogni forma di schiavitù.
Gli anni seguenti sono un progressivo fiorire di comunità di accoglienza, centri di riabilitazione, gruppi di volontariato da lui voluti e animati: nascono così case famiglia per minori in difficoltà e ragazze madri, comunità per persone con disabilità e malati mentali, servizi per adolescenti con problemi con la giustizia, cooperative di solidarietà sociale per l’inserimento lavorativo di ragazzi emarginati, famiglie aperte all’affidamento e alla adozione. Nel 1970, nei locali della Curia arcivescovile che oggi ospita la biblioteca diocesana, don Italo avvia la Casa dello studente, che ha permesso a decine di ragazzi orfani e residenti nella periferia della diocesi, di poter studiare e conseguire un diploma e a volte anche la laurea. Alcuni studenti di allora oggi sono anche docenti universitari e molti sono affermati professionisti. Nello stesso anno la Piccola Opera si trasferisce da San Giovanni di Sambatello a santa Domenica, piccola frazione della periferia reggina.
Nel 1973 nella frazione Pilati di Melito Porto Salvo, fa nascere il Centro Giovanile Pilati, oggi cooperativa don Italo Calabrò: tre giovani del “Panella”, nell’agosto di quell’anno avviano la prima casa famiglia con i ragazzi dell’Istituto Addolorata di Prunella che l’anno dopo don Italo farà chiudere. I ragazzi saranno ospitati in comunità più adeguate alla loro formazione e in alcuni nuclei familiari che hanno così iniziato l’esperienza dell’affido. Nel 1974 la Piccola Opera, sempre guidata da don Italo, apre un altro centro a Prunella.
Un’attenzione particolare don Calabrò dedica, sin dai primi anni ’70, al problema dell’ospedale psichiatrico reggino e, dopo l’emanazione della legge 180 del 1978, segui il dramma dei dimessi. Nell’estate del 1975 promuove la prima esperienza del “soggiorno sociale” realizzato a Cucullaro di Santo Stefano in Aspromonte nella Casa “San Paolo” della diocesi: ai malati mentali chiusi nel manicomio reggino venne data la possibilità di vivere un momento di vacanza. Quell’esperienza ha continuato a realizzarsi fino a due anni fa, quando a causa del COVID, è stata interrotta. Il 29 luglio del 1977, è tra i promotori della marcia internazionale per la pace organizzata da Pax Christi che partì dal quartiere Archi e terminò proprio dentro il manicomio con la presenza dei vescovi Ferro e Bettazzi.
Nel 1977, in locali messi a disposizione da mons. Giovanni Ferro, vescovo della diocesi di Reggio Calabria – Bova, a Prunella farà nascere l’esperienza della cooperativa agricola “Comuneria”, per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità.
Nel 1978 promuoverà la nascita della Cooperativa Servizi Sociali dell’Agape che dopo qualche anno si chiamerà coop. “Marzo 78”: l’esperienza nasce in seguito alla chiusura dei Riformatori per garantire l’accoglienza dei minori in esso rinchiusi.
Nel 1979, nel centro di Reggio, in un locale della diocesi, avvierà la Cooperativa “L’Arca”, che per tanti anni ha consentito di avviare al lavoro altre persone con disabilità.
Nel 1979, dopo la legge sull’aborto, don Italo Calabrò avvia la casa accoglienza per ragazze madri, oggi intitolata a suor Antonietta Castellini che fu una delle collaboratici di quella prima esperienza. Nello stesso anno, nel mese di novembre, nei locali della Curia che ospitavano l’ufficio della Caritas Diocesana, don Italo, con la collaborazione delle suore di Madre Teresa di Calcutta che pochi mesi prima avevano avviato una mensa per i poveri, apre la prima comunità per cinque dimessi dal Manicomio: trovarono rifugio Antonio, Ferdinando, Cesare, Ernesto e Agesilao. Collaboratori di quella esperienza furono Suor Speranza Lentini, delle suore di Santa Giovanna Antida e Piero Cipriani, giovane barese che per molti anni collaborò con don Italo e scrisse uno dei libri che raccontano la sua vita.
Alle attività di volontariato interno allo Psichiatrico si affiancano, così, nel corso degli anni, varie comunità d’accoglienza per malati mentali. L’ultimo progetto da lui voluto è un Centro diurno polivalente per disabili, il centro “Tripepi Mariotti”, che non ha fatto in tempo a inaugurare. Lo stesso centro sarà aperto nel 1991.
Il 20 maggio 1979 accoglie Madre Teresa di Calcutta che per la prima volta viene Reggio. Il 29 maggio dello stesso anno nasce a Reggio Calabria la prima comunità delle Suore Missionarie della Carità per il servizio ai più poveri dei poveri. Le suore curano la mensa per i poveri e la loro accoglienza che viene chiamata “Sentiero Ho Chi Min”. Madre Teresa tornerà ancora a Reggio Calabria il 28 e 29 ottobre del 1982 e don Calabrò organizza la sua presenza in città. La sera del 28 ottobre 1982, la Cattedrale, gremita di fedeli, accoglie Madre Teresa di Calcutta.
Agli inizi del 1980, dove prima c’era la Casa dello Studente che viene traferita in altri locali, don Italo farà nascere “Casa Opitalità” che accoglierà altri dimessi dal manicomio. L’11 marzo 1981 la professoressa Maria Mariotti, laica illuminata della diocesi reggina bovese, dona al Centro Comunitario Agape un terreno dove nascerà il centro per persone con disabilità dedicato ai suoi genitori. Oggi nello stesso terreno la Piccola Opera ha il suo centro operativo più imporrante con gli uffici amministrativi, il centro diurno “Tripepi Mariotti, il centro ambulatoriale “P. Raffa” e il centro residenziale “C. Pizzi”. Sempre nel 1981, il 9 novembre, le donne accolte a Casa Ospitalità verranno trasferite in una nuova comunità: il “Cassibile” di Villa San Giovanni.
Don Italo si prese cura anche dei sacerdoti soli e in difficoltà soprattutto quando diventavano anziani e ammalati: così il 9 ottobre del 1983, sempre nei locali della curia diocesana, avviò la Casa del Clero, per l’accoglienza dei sacerdoti anziani.
Nel Natale del 1983, promuoverà anche la nascita di “Casa Emmaus”: la comunità parrocchiale di Palizzi, centro a 50 chilometri da Reggio, accolse nella casa canonica gli ammalati mentali del paese che erano chiusi nel manicomio reggino.
Nello stesso anno promuove la nascita del MO.V.I. (Movimento Volontariato Italiano).
Attento ai giovani, con i quali aveva un dialogo aperto e sincero, avviò con alcuni di essi, sempre agli inizi degli anni settanta, il Centro Comunitario Agape, una comunità da lui realizzata per la comunione di vita con i più poveri ed eretta ad Ente Morale nel 1983.
Nella Piccola Opera Papa Giovanni don Italo buttò un seme di amore che in questi anni è cresciuto e si è moltiplicato grazie all’impegno generoso e sapiente di tanti amici che sono rimasti fedeli alle motivazioni originarie. Attraverso la sua testimonianza, innanzitutto, richiamava la Chiesa e la società a essere attente ai bisogni dei fratelli emarginati. Da vero profeta non si limitava a elencare i diritti dei poveri ma a gridarli a partire dalla sua vita. Gli ospiti e i dimessi dell’Ospedale Psichiatrico, le ragazze madri, i barboni, i minori abbandonati fuori e dentro gli istituti, i disoccupati, erano per don Italo persone da servire, da liberare dall’emarginazione, da restituire alla dignità d’uomini.
Non erano categorie sociali, gruppi astratti di persone. Conosceva i nomi e le storie di tutti loro e a ciascuno cercava di dare una mano per risolvere qualche problema. Capitava che qualcuno lo ringraziava. Lui rispondeva sempre “dovere”: si, perché lo stile di don Italo era fondato sulla gratuità. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. “Noi amiamo” – diceva – “perché Dio ci ama per primo. E quello che noi riusciamo a donare è sempre grazia, dono di Dio da restituire ai fratelli, perché niente ci appartiene, tutto è dono di Dio”.
La sua carità non aveva limiti: attenta, premurosa, umile. La riconduceva sempre a Cristo. “Siamo servi inutili”, era una citazione che amava ricordare ogni qualvolta magari eravamo orgogliosi per aver realizzato qualche buona azione o per essere riusciti in qualche iniziativa. Apriva continuamente nuovi “fronti” di servizio per i fratelli in difficoltà: iniziando di solito con pochi strumenti realizzava esemplari opere educative. Così dopo la sua prima esperienza d’accoglienza avviata a San Giovanni di Sambatello nella casa canonica, faceva nascere, grazie alla disponibilità di sacerdoti, laici e comunità cristiane, altre esperienze di solidarietà per i minori, i malati mentali, gli anziani. Don Calabrò credeva nell’importanza pedagogica per tutta la Chiesa e i cristiani di tali scelte.
Egli richiamava continuamente, infatti, la necessità per la Chiesa e per i cristiani di mettere a disposizione dei poveri i propri edifici e le risorse. “Se i beni della Chiesa non li mettiamo a disposizione delle necessità dei poveri” – ci diceva – ” non sono benefici ma malefici della Chiesa”.
Gli stessi locali della diocesi, come quelli del “cortile della Curia”, per molti anni furono luogo privilegiato per l’accoglienza dei poveri. La Chiesa diveniva sempre più “casa madre”, focolare d’amore, grembo materno che accoglieva i figli più fragili. La Chiesa così fa proprie le fatiche e le sofferenze, le ansie e le angosce degli uomini e li accompagna in un cammino di speranza. La sua fede nella Chiesa Santa e Cattolica lo spingeva a calarsi nella realtà sociale per denunziare tutto ciò che opprimeva l’uomo e ne impediva la liberazione.
Sacerdote formatosi in anni preconciliari, seppe trarre dal Concilio Vaticano II tutta la forza innovativa che incarnò nella sua missione a servizio della diocesi. Determinante è il suo contributo per l’adeguamento delle chiese locali calabresi agli orientamenti partecipativi e comunionali del Concilio Vaticano II e in particolare per l’istituzione a Reggio dei Consigli Presbiterale e Pastorale. Manifesta le sue capacità anche nel corso dei 16 anni in cui, mentre è parroco di San Giovanni di Sambatello, è vicario prima negli ultimi anni di episcopato di mons. Ferro e poi con mons. Sorrentino.
Don Calabrò contribuisce in maniera decisiva alla realizzazione di due eventi d’eccezionale portata storica per Reggio e per l’intera Calabria: la prima visita di Giovanni Paolo II nel 1984 e la Celebrazione del XXI Congresso Eucaristico Nazionale nel 1988 con la seconda visita del Pontefice.
Nel 1987 avvia, a Villa San Giovanni, “Casa Corigliano”, esperienza di accoglienza per altri ammalati mentali. E nel 1988 a Melito Porto Salvo avvia un’altra comunità per ammalati mentali: “Villa Falco”.
Uomo di grande apertura e coraggio, sa precorrere i tempi e cogliere i segni del cambiamento: la scelta dei poveri e la promozione del volontariato in anni in cui tali scelte non erano prive di ostacoli e incomprensioni; l’impegno per la pace e la non violenza (è tra i primi in Italia a sostenere e a diffondere l’obiezione di coscienza al servizio militare); l’apporto della Chiesa per il Mezzogiorno.
Condannò la mafia indicando alla comunità ecclesiale e civile la via della ferma denuncia. Rimarrà un punto di riferimento per tutti coloro che sono impegnati contro la ‘ndrangheta l’omelia di don Calabrò del 2 agosto 1984: la celebrazione eucaristica era stata organizzata insieme al parroco di Lazzaro don Mimmo Marino per chiedere la liberazione del piccolo Vincenzo Diano sequestrato pochi giorni prima. Il ragazzo fu liberato il 7 ottobre 1984 in coincidenza con la prima visita di Giovanni paolo II a Reggio Calabria.S’impegnò per fare uscire dagli istituti quanti più bambini, malati mentali, donne fosse possibile promovendo anche la dimensione della giustizia per la realizzazione di leggi e strutture più umane e adeguate.
Lavorò instancabilmente con i giovani, quelli del suo “Panella” innanzitutto, la scuola dove insegnò per tanti anni, educandoli e incoraggiandoli ad avere fiducia in se stessi e mettendoli nella condizione di fare esperienze di vita liberanti. Dialogava con tutti senza alcun pregiudizio ideologico. Non imponeva il suo punto di vista se non quando si trattava di mettersi a disposizione degli ultimi. Cercava di fare lui per primo quello che chiedeva agli altri. Così i principi della solidarietà e della condivisione li applicava innanzitutto a se stesso. Convinto che tutto andava messo a servizio dei fratelli, l’11 marzo 1981, lo stesso giorno della donazione fatta da Maria Mariotti, donò la sua casa, dove continuò a vivere pagando un affitto mensile, al Centro Comunitario Agape “per garantire maggiore stabilità” – scrive ai suoi vicini condomini – “anche patrimoniale alla comunità Agape”.
Per non staccarsi dal servizio ai poveri per due volte rinunciò all’incarico episcopale. Una scelta non facile, che però visse senza rimpianti e ripensamenti: la Chiesa per don Italo fu realmente luogo di servizio e di comunione. Cristo e i poveri erano il suo orizzonte di vita. Nel 1973 è chiamato dall’allora Segretario della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Bartoletti, a collaborare ad un documento episcopale sul Meridione e più tardi accoglie con grande favore il testo redatto dai vescovi italiani nel 1989 sul Sud, di cui si fa propagatore in moltissime diocesi.
Disoccupazione giovanile e mafia sono i due punti su cui concentra il suo impegno per il Sud. Non cessa mai di invocare un deciso intervento dello Stato per una reale crescita occupazionale, come argine al degrado della convivenza civile, allo strapotere mafioso e al dilagare di metodi clientelari e corrotti nella gestione della cosa pubblica e nella classe politica.
E’ anche l’ispiratore del documento del gennaio 1990 con cui il Consiglio Presbiterale della diocesi di Reggio Calabria – Bova denuncia atti d’intimidazione contro sacerdoti della diocesi, che susciterà enorme scalpore sulla stampa e nella Chiesa italiana.
Nei suoi scritti troviamo una pagina molto significativa che rivela la sua alta spiritualità: “Il Signore mi ha potato e purificato più volte: dolori fisici e prove morali, sofferenze, angosce, delusioni, difficoltà, perché io portassi più frutto. Mi ha anche umiliato, perché non montassi in superbia e sicura fosse la mia rovina. Ti benedico Signore. Potami ancora, quando e come tu vuoi, ma fa che nell’ora della prova ti ami ancora. La prova non è fine a se stessa, ma è per la vita”.
Così venne per don Italo il tempo della grande purificazione. Gli ultimi mesi della sua vita li visse unito ancora più profondamente al Cristo, suo Signore, attraverso il mistero della croce. E venne l’ora, all’alba del 16 giugno del 1990, in cui il Signore chiese a don Italo di sciogliere le vele, di non lottare più perché bastava quanto aveva combattuto. Il giorno delle sue esequie fu salutato da quasi tutti i poveri che aveva servito.
La Cattedrale era piena di gente che piangeva l’amico premuroso, il fratello sempre vicino, il sacerdote di Cristo che ha saputo donarci l’amore del Padre. Don Italo Calabrò, aldilà dalle molteplici iniziative da lui condotte, resta nel ricordo di tutti come uomo e sacerdote di fede profondamente vissuta nella storia del suo tempo, come compagno di strada dei più deboli, come credente, capace di intessere un’intera esistenza nel segno dell’amore e nell’incarnazione del messaggio evangelico.
Assieme a papa Giovanni XXIII, don Italo continua a benedire e illuminare il servizio ai fratelli che ancora oggi cerchiamo di portare avanti attraverso l’esperienza della Caritas Diocesana, della Piccola Opera Papa Giovanni, del Centro Comunitario Agape, della sua piccola e amata parrocchia di San Giovanni di Sambatello e di tutte le altre esperienze da lui avviate nella nostra diocesi per il servizio ai più poveri.
E proprio nei luoghi di accoglienza, continua ad essere onorata la memoria di don Italo Calabrò, amico dei più poveri, servo fedele della sua Chiesa, testimone credibile dell’amore di Cristo per l’umanità.

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