Servo di Dio Benedetto XIII Sommo Pontefice

Benedetto_XIII

Cenni Biografici del
Servo di Dio Benedetto XIII
Sommo Pontefice
(al sec. Pier Francesco Orsini – religioso domenicano Vincenzo Maria)
(1650-1730)

Pierfrancesco Orsini nacque a Gravina il 2 febbr. 1650, secondo i calcoli del Vignato, mentre la maggior parte dei biografi lo dice nato nel 1649. Era figlio primogenito di Ferrante degli Orsini, duchi di Gravina, e di Giovanna di Carlo Frangipani della Tolfa, duca di Grumo. Morto il padre nel 1658, Pierfrancesco ricevette l’investitura dei feudi di Gravina, Solofra, Sorbo e Galluccio. Malgrado l’opposizione dei familiari, e in particolare della madre e dello zio cardinale Virginio Orsini, che poi inutilmente si rivolsero allo stesso Clemente IX, il 12 ag. 1668, durante un viaggio di istruzione a Venezia, l’Orsini vestì l’abito dei predicatori, assumendo il nome di Vincenzo Maria. Il 9 febbraio dell’anno successivo rinunziò ufficialmente in Roma ai diritti di primo genitura in favore del fratello Domenico e quattro giorni dopo professò nel convento di S. Sabina. Inviato per i corsi di teologia al convento domenicano di Bologna, qui pubblicò nel 1669 un volume di Sacra Epigrammata, poi ristampato a Roma in traduzione italiana nel 1730. Ordinato sacerdote il 24 marzo 1671, il 4 luglio successivo fu nominato lettore di filosofia nel convento dell’Ordine di Brescia, ottenendo due pensioni, sull’arcipretato della cattedrale di Padova e sull’abbazia di S. Michele di Coniolo, nella diocesi di Brescia.
Sarebbe certamente troppo lungo esaminare in modo esauriente e completa tutta la biografia di fra Vincenzo Maria, ma basterà tuttavia considerare alcuni punti più significativi per averne un profilo abbastanza chiaro. In primo luogo la ricerca documentaria ha giustamente respinto come erronea l’opinione di quanti ne avevano collocato i natali a Napoli o a Roma, ritenendo forse umiliante il dirlo nato a Gravina, come argutamente osservava mons. Sanna. Il primo documento è una lettera dello stesso Arcivescovo di Benevento, ad un certo abate Cipolla, del 19 maggio 1713, stampata in un volumetto riflettente una vertenza economica tra gli Ecclesiastici di Gravina ed il suo feudatario D. Filippo Bernualdo Orsini.. L’illustre personaggio dichiara di essere nato a Gravina, di avervi ricevuto il battesimo e di esservi vissuto fino all’età di diciassette anni. Nel dimostrare la sua disponibilità ad accettare l’incarico della visita apostolica egli teme per questo «di essere creduto parziale per interessi di un nipote della carne, contro la madre dello spirito». Il secondo è un voto capitolare del 6 giugno 1724, con cui il capitolo della cattedrale si felicitava con Benedetto XIII in occasione della sua elevazione a Pontefice, riconfermando l’avvenuta sua nascita in Gravina: «Gravinae decorem, in qua nostra, immo potius sua civitate sicut natalia sortitus … ».
Ricordiamo inoltre una bolla originale ed autentica dello stesso Pontefice, che, in data 19 luglio 1724, concedeva ai Canonici della Cattedrale di Gravina «in qua nati et baptismi sacramento regenerati sumus» il privilegio di usare la Cappa magna con pelliccia e rocchetto. Negli atti della stessa visita apostolica del 1714 egli ricorda la sua nascita gravinese. Così, nel visitare la Chiesa Cattedrale, dando precise disposizioni per rinnovare il fonte battesimale, ricorda di esservi stato battezzato (Ir.). Meritatamente Gravina può dunque vantarsi di essere stata la patria di un uomo che rifulse nel suo tempo per innumerevoli virtù. Egli fu molto stimato per la vastissima e profonda cultura, alla quale lo indirizzavano il suo amore per lo studio e la spiccata versatilità d’ingegno. Proprio in Gravina, ancora adolescente, fondò l’Accadernia de’ Famelici, ricordata dal Minieri Riccio. Il suo più accurato e documentato biografo, il Vignato, ricorda la sorpresa di quanti lo videro compiere in tre anni un corso di studi che ne esigeva non meno di nove. Molto encomiati per la loro eleganza furono dai letterati del tempo i suoi Sacra Epigrammata, licenziati alle stampe nel 1669. Partecipò attivamente alla vita culturale del tempo, quale membro della Accademia degli Spensierati ed Incuriosi di Rossano, venendo così ad avere stimolanti contatti con l’abate Gimma, Niccolò Antonio di Tura, Pompeo Sarnelli, Giovan Mario Crescimbene, il Giannone, il Vico, Francesco e Tommaso Solimena, e soprattutto il compaesano Federico Meninni, medico e stimato poeta marinista che gli dedicò diverse composizioni poetiche.
Promotore di studi e belle arti, fece parte anche della ‘Accademia dell ‘Arcadia, in cui aveva preso il nome di Teofilo Samnio, che conservò anche da Papa, attribuendo alla nobile istituzione diversi privilegi. A suo grande merito bisogna ascrivere inoltre la fondazione della Università degli Studi di Camerino (1727) e la protezione accordata all’Accademia Teologica. Dalla riconoscenza dei posteri e degli studiosi molto meritò la sua opera indefessa di riordinatore degli Archivi, celeberrimi per dovizia e antichità di scritture, come quello Arcivescovile di Benevento e Manfredonia, nonchè quelli vescovile e Capitolare di Gravina e di S. Bartolomeo in Galdo. Si serviva della preziosa collaborazione di un dotto monaco e pento paleografo, Casimiro Graiewski dell’Abbazia di Sant’Amando in Pabula, presso Tournai (Belgio). Gli Archivi gravinesi devono a lui la loro riorganizzazione e la loro stessa sopravvivenza. E’ da credere che per ordinarli si servisse non solo dell’opera del Graiewski, ma anche di quella dei bibliotecario Domenico Rossi, che tenne tale ufficio nella sua curia beneventana dal 1708 al 1724. Interessantissimi per gli studiosi di storia locale sono i registri compilati sempre nel 1714 durante la visita apostolica. Con incredibile ardore combattè i ladri ed abusivi detentori di documenti d’archivio. Nelle istruzioni per glì archivisti si resta colpiti dall’estrema praticità del dettato. Accanto alla sua.vasta cultura non possiamo non ricordare la profonda religiosità di cui è segno quel vivo zelo pastorale che dì continuo traspira dal numerosissimi documenti, fedeli testimonianze della sua indefessa operosità. Ad un uomo di così nobili costumi e preciare virtù non potevano mancare i segni più affettuosi di stima e venerazione da parte del popolo, che per eccessiva devozione arrivava fino al punto di ricercarne una reliquia e di ridurre in minutissimi pezzi una gran croce di legno da lui precedentemente bacìata. Così non potevano mancargli i segni della divina benevolenza. Nella sua biografia sentiamo per un momento aleggiare il profumo rnisterioso della leggenda quando leggiamo un episodio in cui si narra della profezia che un frate domenicano avrebbe fatto alla madre, predicendole il futuro religioso del prossimo frutto del suo ventre. Chi non volesse prestare eccessiva fede a questo particolare biografico, non potrebbe tuttavia non avvertire un tangibile segno della celeste benevolenza nella sua miracolosa salvezza dalla morte nel terremoto beneventano del 5 6 1688.
Dopo il sisma, l’Orsini organizzò subito i soccorsi per la popolazione, tra cui si lamentavano più di un migliaio di vittime, prodigandosi con ogni cura e munificenza anche per le riparazioni agli edifici, tanto che il Comune volle etemare nel marmo la memoria dei suoi benefici, chiamandolo «terzo fondatore di Benevento». Manfredonia e Cesena resero solenni grazie a Dio per l’indennità del loro antico presule, e cappelle ed altari sorsero qua e là per ricordare il miracolo. Si spiega con questo eccezionale avvenimento la speciale devozione del Cardinale per il Santo, a cui attribuiva la propria salvezza, del culto del quale divenne instancabile promotore e diffusore, Non si contano le chiese, le cappelle e gli altari dedicati al suo nome. Nella sola Benevento si annoverano ben diciannove altari, che dedicò al glorioso Santo, di cui uno nella Cattedrale, da lui stesso restaurata e consacrata nei 1692. Nella visita fatta da Papa nella città che continuava a governare, consacrò inoltre a San Filippo Neri una chiesa (24 5 1727) con diverse campane. Lo dichiarò inoltre protettore di Manfredonia, alla quale fece dono, quand’era Pontefice, dei precordi e della berretta del Santo. Lo nominò anche conprotettore di Gravina e Benevento e ne compose la Messa, celebrandone solennemente la festa, durante la quale soleva offrire ai poveri un pasto che lui stesso serviva. La devozione verso il Santo non poteva che aumentare quando scampò per una seconda volta al pericolo, il 15 marzo 1702.
La sua riconoscenza si manifestò allora in molte circostanze. A Gravina ricorderemo l’altare di San Filippo in Cattedrale e quello eretto dalla madre riconoscente in San Tommaso d’Aquino* (Visita Apostolica 2v e 106r). Da Papa, volle consacrare di persona la cappella interna di San Filippo alla Vallicella, dichiarandone di precetto il giorno festivo nel distretto di Roma. Egli era dunque un uomo di grande religiosità e profonda cultura, che tuttavia non restava sterile e dogmatica, avulsa dai problemi pratici. Così il problema sociale, ai suoi tempi poco avvertito, fu da lui particolarmente sentito e singolarmente affrontato. Testimoniano questo suo zelo i Monti frumentari, eretti nelle tre diocesi nelle quali passò. Con questa benefica istituzione la cui memoria non è ancora spenta nel popolo, egli mirava a sollevare il bracciantato e a formare una classe di piccoli proprietari terrieri, liberando i contadini dalla schiavitù dell’usura. Ispirandosi ai principi del moderno credito agrario concedeva un prestito in grano per la semina, dietro un pegno e un interesse, che ancor oggi è da considerare veramente esiguo (12%). Derivazione dei francescani Monti di pietà del sec. XV, i suoi Monti frumentari divennero presto numerosissimi, a prova del favore incontrato presso la classe popolare, verso la quale andavano le sue maggiori cure ed attenzioni, che lo spinsero a battersi per l’abolizione del divieto sul commercio del grano. Lo stesso motivo riscontreremo, quasi un secolo dopo, nell’opera dell’illuminista abate Ferdinando Galliani: «Dialogues sur le commerce des bles» (1770). Se si considerano allora i tempi e la vita sociale dell’ultimo Seicento, la sua opera ci appare sempre più profetica e precorritrice di tempi a noi vicini. Naturalmente non potevano mancare critiche ed accuse, spesso infamanti, di incetta, imboscamento ed usura, ma egli proseguiva nel suo intento, sicuro della bontà dei suoi propositi.
Queste vere e proprie battaglie in favore delle classi più umili sembrano, a mio parere, meritargli pienamente il titolo di «miles in bello» assegnatogli dalle profezie di frate Malachia, altrimenti inspiegabile con la sua naturale indole pacifica. Purtroppo bisogna dire che quelle benemerite istituzioni, diffuse in seguito in tutto il regno dall’entusiasmo dello stesso Ferdinando 11, perirono in breve quando furono affidate alla vigilanza dei Comuni (1862). Il suo impegno sociale continuò del resto anche dopo l’elezione a pontefice, quando ridusse il dazio sui generi di prima necessità ‘ come il pane, il vino e la carne. Altra importantissima innovazione di carattere sociale fu certamente l’abolizione del gioco del lotto, qualificato immorale. Il suo slancio riformistico lo spingeva anche ad interessarsi della questione ospedaliera e penitenziaria. Con una visione precorritrice delle moderne metodologie profilattiche, impose la separazione delle malattie infettive, costruendo l’ospedale di S. Gallicano specializzato per le malattie della pelle. Fondò inoltre il penitenziario di Cometo con intendimenti moderni, per la riabilitazione dei detenuti. Tante e tali benemerenze non impedirono tuttavia le critiche più o meno giustificate al suo operato. Le accuse provenivano naturalmente dagli ambienti più chiusi e reazionari, che vedevano un pericolo nella sua attività riformistica. Contro i Monti frumentari, ispirati al principio su cui si fonda l’odierno credito agrario, si levarono le accuse di quanti non potevano più continuare tranquillamente a sfruttare il misero bracciantato agricolo. Furono essi in seguito la vera causa della decadenza e della scomparsa di tali istituzioni. Allo stesso modo, gli ambienti più retrivi della Curia Romana, che avevano visto di malocchio le sue riforme, alla sua morte cercarono di rimediarvi, eliminando innanzitutto i seguaci del defunto Pontefice, apertamente tacciato di «Beneventanesimo». Anche dopo l’elezione pontificia, egli non aveva infatti voluto abbandonare il governo episcopale della prediletta Benevento, anzi aveva continuato a servirsi dell’opera di precedenti collaboratori, che senza essere d’illustri natali e senza il consueto tirocinio di Corte, raggiunsero posti di prestigio. Così, alla sua morte, il Coscia, Cardinale Segretario di Stato, e il Finy, furono accusati di malversazione. Lo stesso defunto fu incolpato di aver squilibrato il bilancio dello Stato, che da un attivo di trecentomila ducati era passato a un passivo di centoventimila ducati.
A dimostrazione della superficialità ed infondatezza dell’accusa basterà dire che la sola gabella delle carni, da lui abolita, rendeva settecentomila scudi. Il Finy fu prosciolto, ma il Coscia condannato e poi graziato. Si volevano così colpire, evidentemente, gli homines novi, personaggi emblematici del nuovo corso riformistico di Benedetto XIII. Il gioco del lotto e le gabelle furono restaurate; così il bilancio statale migliorò. Il nostro giudizio su fra Vincenzo Maria non può essere che completamente positivo. La sua religiosità, il suo zelo pastorale e la sua profonda cultura lo collocano in luce di prima grandezza tra i pontefici romani. Ma soprattutto la sua sensibilità umana, il suo interesse per i problemi sociali, il modo tutto nuovo di affrontare la questione agraria, o quella ospedaliera e carceraria, ne fanno un emblematico precursore di tempi più illuminati, in cui le sue idee avrebbero finalmente trovato più fertili sviluppi.

-Centro Studi Benedetto XIII di Gravina in Puglia – Bari
-Treccani – Dizionario Biografico

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